La serata, particolarmente interessante, ha visto Bonollo affrontare il tema dei rapporti tra occidente e le culture altre, in particolare la cultura africana, di come nascono gli stereotipi, si creano i pregiudizi e si consolidano le tradizioni iconiche al punto che certe immagini possono attraversare interi secoli senza che la loro verità sia neanche minimamente scalfita. E in ultima analisi del nostro ambiguo rapporto con le immagini.
Riportiamo alcuni stralci tratti della registrazione della serata:
[…] Il nostro rapporto con l’altrove – il luogo dell’altro- è sempre stato mediato da rappresentazioni di varia natura – che producevano il loro effetto di realtà tramite una qualche forma di immaginazione. Se pensiamo ad esempio alle rappresentazioni letterarie o narrative, dobbiamo constatare che fin dall’antichità – chi viaggiava raccontava e chi raccontava aveva già viaggiato, al punto che la stessa invenzione della letteratura deve in qualche modo essere posta in relazione al viaggio –all’esperienza dell’altrove. […]
La fotografia produce una verità assertiva: Ciò che si vede è ; ma non tutto ciò che esiste è visibile, e non tutto ciò che si vede può essere fotografato. Non può esistere visione senza scopo e ogni sguardo porta con sé un giudizio e il vedere implica sempre un atto di volontà (Schopenhauer) Naturalizzare una visione, farla credere spontanea, frutto quasi di attività fisiologica, porta drammaticamente all’ideologia. Con l’innocenza delle immagini (guardare non costa niente) abbiamo realizzato un vero e proprio abominio sull’Altro , una delle peggiori colonizzazioni: quella del visibile. […]
Attraverso questi sguardi innocenti abbiamo riscritto la visione del mondo, abbiamo trasformato gli altri applicando filtri culturali, forme retoriche, codici espressivi, decidendo per gli altri “il come” e il “che cosa” li rappresenti.
La prima forma d’esproprio passa infatti attraverso un atto apparentemente inoffensivo: quello di rappresentare ciò che si vuole espropriare, di possedere senza violare, di manipolare l’Altro senza toccarlo, di ricollocarlo in uno spazio completamente nuovo senza costringerlo al benché minimo spostamento.
(john Comaroff)
[…] Nell’immaginario europeo, l’Africa è sempre stata considerata come una realtà “selvaggia”, il regno incontrastato della natura (cuore di tenebra- continente nero- Tarzan Indiana Jones), semplicemente perché abitata da genti che, dal punto di vista europeo, sembravano non aver sviluppato una cultura della reificazione: un controllo esteso e sistematico sulla materialità dell’ambiente. Al contrario, le culture e le genti africane avevano organizzato un intero continente attraverso una “«pratica del simbolismo»”, cioè con forme di attuazione più legate al controllo semantico del territorio che a prassi materiali.
[…] La storia dei rapporti euro-africani è così drammaticamente segnata fin dagli inizi da incomprensioni che si sviluppano attorno alla mediazione territoriale. (a ciò che il territorio significa per queste due culture e alle differenti forme visive che l’organizzazione dello spazio prende) L’esito di questo incontro viene descritto da J. Conrad, in Un avamposto del progresso, come un totale smarrimento del senso da parte dei coloni bianchi:
“Vivevano come ciechi in una vasta stanza, consci soltanto di quel che veniva in contatto con loro (ma solo impercettibilmente), incapaci tuttavia di vedere l’aspetto generale delle cose. Il fiume, la foresta, tutta la grande terra palpitante di vita, erano un enorme vuoto. Perfino l’accecante luce del sole non svelava nulla d’intelligibile. Le cose apparivano e sparivano davanti ai loro occhi in modo sconnesso e senza scopo.”
[…] La territorialità africana si produce quindi nell’esperienza dei nuovi arrivati, i colonizzatori europei, mediante un effetto di assoluta invisibilità. Essa si presta a essere descritta soltanto con il ricorso alla metafora della tenebra, esattamente attraverso ciò che non si vede e che, pertanto, non può nemmeno essere descritto. In tale frangente l’Africa diventa quella realtà oscura ed indistinta dalla quale emergono rare macchie di luce dotate di senso: le stazioni commerciali, i fortilizi o, con le parole di Conrad, gli avamposti del progresso. Dunque, prima di diventare una figura retorica della crociata coloniale (il portare la luce della civiltà ) e un giudizio di valore etico (il buio morale), la tenebra assume esattamente questa funzione espressiva – il descrivere ciò che non poteva essere visto e compreso e quindi nemmeno tradotto. La traslazione da questo uso “visivo” della tenebra ad uno ideologico e morale segna, nella storia dell’espansionismo europeo, il passaggio dalla fase del mercantilismo a quella colonialismo (dalla logica del passaggio, garantire un traffico ed un approdo) a quella volta al controllo e allo sfruttamento diretto del territorio africano.
[…] Resta comunque un fatto assodato che il colonialismo non può tollerare l’invisibilità. Tutte le volte che ciò si è presentato – pensiamo ad esempio in Africa ai quartieri privati della città islamica, ai luoghi di culto, e a tutti quegli ambienti e a quelle pratiche sociali da cui l’occhio occidentale è stato bandito – il potere coloniale si è preso la sua cinica rivincita soddisfacendo per altre vie il proprio desiderio scopico. Come il poeta algerino M. Alloula ha infatti dimostrato, nella logica della rappresentazione coloniale, lo stesso velo delle donne mussulmane diventa il simbolo della cecità fotografica: “un leucoma (…) sull’occhio del fotografo” che deve in qualche modo essere rimosso. Al cuore della sua attuazione, il potere coloniale si impone quindi attraverso un assoluto diritto di visibilità confermando attraverso l’impulso voyeristico un’analogia costitutiva fra lo “svelare” del fotografo e lo “scoprire” dell’esploratore.
[…] Per venire all’oggi e al nostro rapporto iconico con l’alterità … Ricordiamoci sempre che se le foto assertive sono un medium freddo (ci incatenano come spettatori), dall’altro offrono comunque l’opportunità di un riconoscimento. Dobbiamo imparare a guardare queste immagini più che a vederle. Vedere è molto diverso dal guardare. La vista diventa sguardo solo quando si presta ad un chiasmo, ad un incrocio, ad uno stravolgimento. C’è sguardo quando è concesso che l’altro mi modifichi, e mi faccia conoscere come in uno specchio i recessi nascosti della mia identità. E’ evidente che non esiste simmetria fra il vedere e l’essere visti, mentre toccare è il medesimo gesto dell’essere toccati. E dunque se non vi è reversibilità in ciò che viene visto, dobbiamo lasciarci toccare da questi sguardi che le immagini ci restituiscono, aspettandoci di essere sorpresi da un ritorno imprevisto, da un’informazione inedita, da una reinvenzione della nostra meraviglia, insomma qualcosa che ci tocchi nel profondo e ci cambi. […]
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Grazie alla persona e al professionista che è Leonardo Bonollo,
perché l’ altrove si fa più vicino mentre il nostro sguardo va piu’ lontano. Solo oggi mi accorgo di quel luogo infinito.